martedì 30 aprile 2013

Casa verde, caffè bosniaco e Nosferatu

Siamo tornati in Italia ed è tempo di riaggiornare il blog con tanti altri ritratti di persone che abbiamo incontrato in viaggio, quasi sempre per caso.

Martedì 23 aprile, nel pomeriggio

Quello con Ado Hasanovic non è stato un incontro per caso. E' amico di Roberta Biagiarelli, a detta sua "un artista totalmente fuori dal coro, uno tosto che si è costruito da solo un futuro".
Aspettiamo di comprare la sim card bosniaca e lo chiamiamo. Sa un po' di italiano perchè ha avuto due fidanzate italiane. "Ciao, bella. Come va? Ci vediamo davanti alla cattedrale".  La cattedrale si colloca nella parte austriaca(più cool-fighetta) della città, di fronte a un lungo viale pedonale in cui i giovani si trovano a bere qualcosa a tutte le ore del giorno sotto una sfilza di mega schermi ultrapiatti di ultima generazione( di sera è facile vederli tutti contemporaneamente sintonizzati su una partita di calcio). Questo per dire che Sarajevo oggi non è quasi più la città delle case bombardate e dall'intonaco butterato di proiettili. E' una capitale  in cui i giovani si comportano come in tutte le altri parti del mondo: escono, vanno a ballare o a bere qualcosa. Le ragazze osano spesso minigonne tanto apprezzate dal pubblico maschile che risponde con giacca, mocassino e ingellata ai capelli.


Ado si presenta davanti alla cattedrale in bicicletta. E' uno dinamico, non sta fermo un attimo. Gesticola, saltella dal poco italiano all'inglese più agevole. Ci incamminiamo verso la "casa verde", così definisce la sua di casa. Secondo me più che verde erba sembra azzurra o al massimo verde acqua. Ma non so come si dice in inglese verde acqua. Forse green water? Ci inerpichiamo per le stradine di Baščaršija, anche "Jovan Divjak abitava qui, credo" mi dice Ado. La casa verde è una costruzione tipicamente ottomana, con l'ampio cortile interno che dà accesso alle varie aree dell'abitato. Mi fa venire in mente la casa di Svrzo, scorta su una guida di Sarajevo prima della partenza. La vado a ripescare "Entrando nella casa di Svrzo ci si trova nell'avlija(giardino interno) e nella parte chiamata selamluk, dove si salutava gli ospiti. Dal giardino degli ospiti si accede alle stalle e poi attraverso una scala in legno si sale al piano di sopra, al quale si accede dalla veranda". Ado abita sul lato sinistro rispetto all'entrata del giardino, le stanze dal lato opposto sono in fase di ristrutturazione. Non so perchè mi sto dilungando a descrivere la casa verde di Ado, forse per il fatto che a Reggio Emilia case di questo tipo non esistono. Ma arriviamo a parlare di lui.



Ado è nato a Srebrenica, ma vive a Sarajevo perchè studia regia alla Sarajevo Film Academy. E' ormai un nome nel circuito della cinematografia bosniaca. Il suo "Angelo di Srebrenica" ha vinto nel 2011 il "Sigillo di approvazione" alla Erasmus Euro Media Award a Vienna e "The blue vichingo" è stato premiato come miglior film documentario al Festival di Snapshot balcanica ad Amsterdam e al Duka Fest a Banja Luka. E' quasi sempre stato presente nelle ultime edizioni del Sarajevo Film Festival e ci ha promesso che parteciperà anche alla prossima edizione del nostro Reggio Film Festival. 




Ci ospita nel suo salottino e ci insegna a fare il caffè bosniaco. Tutti a Sarajevo lo chiamano caffè bosniaco, ma in realtà è semplicemente la ricetta di quello turco. Caffè bosniaco di Ado: prendi due o tre cucchiai di caffè e li metti a freddo dentro una tazza, aspetti che l'acqua arrivi a bollore e la versi dentro la tazza comprendo il caffè. Mescoli, aggiungi lo zucchero ed è fatta. Il caffè turco è famoso per un lungo processo di decantazione che permette al caffè di depositarsi nel fondo della tazza. Bojan, un altro amico incontrato per caso a Sarajevo, ci ha confessato che-riporto letteralmente- "il caffè bosniaco è la prima fonte di cazzeggio per i Bosniaci". Infatti spesso li vedi tutti seduti ai tavoli nel quartiere ottomano conversare e fumare per ore e ore con il loro caffè bosniaco tra le mani.


Con Ado abbiamo parlato di tutto. Questo è quello che mi è rimasto dentro: "Vale, i ragazzi bosniaci non devono piangersi addosso perché sono nati sulle macerie della guerra. Ognuno sceglie per il proprio futuro, se vuoi cambiare le cose lo puoi fare. Io sono nato a Srebrenica, ho subito la piaga del genocidio di Potocari a pochi chilometri da casa, ma ho avuto comunque la forza di rialzarmi, credere nei miei sogni. Non provengo da una famiglia ricca, mi sono rimboccato le maniche. Ho sempre lavorato per mantenermi all'università, per perseguire il mio sogno di diventare regista. Ecco, non piangiamoci addosso. Crediamo nelle nostre possibilità fino in fondo e andiamo avanti a testa alta". Questa è la Bosnia che non mi aspettavo di incontrare, quella più autentica che dalla guerra ha imparato a guadagnarsi uno spazio nel mondo attraverso dedizione, passione e sudore. Inaspettata come l'invito di Ado: "Andiamo a vedere stasera insieme Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, film muto del 1922?"





venerdì 26 aprile 2013

La carezza del generale



Martedì 23 aprile

C'è un uomo a Sarajevo che tutti chiamano il "nostro grande generale". Jovan Divjak è il nonno di tutti gli orfani della Bosnia, un serbo di nascita che ha sempre scelto di combattere per la salvezza bosniaca. Vice comandante della difesa territoriale della Bosnia durante la guerra del 1992-1995 da Belgrado è arrivato a Sarajevo nel 1966 e non l'ha più lasciata.


Lo raggiungiamo in Dobojska Ulica, 4. Qui dal 1994 ha fondato l'associazione "Education builds Bosnia Herzegovina". Come per dire: soltanto l'educazione può (ri)costruire la Bosnia Herzegovina. Mi confessa che avrebbe voluto studiare pedagogia all'università, ma sua madre lo ha costretto da giovane ad entrar nell'esercito. Jovan è un militare con l'amore per i bambini.

"Education builds Bih" è dedicata a loro. Ai tanti orfani di guerra e ai ragazzi con disabilità che senza l'appoggio dell'associazione non avrebbero avuto alcuna possibilità di ricostruirsi un futuro. Jovan a loro ha teso la mano, li ha accuditi facendoli studiare e viaggiare.

Per arrivare a Dobojska Ulica perdiamo un sacco di tempo, per merito del nostro fidatissimo Garmin che ci spedisce dritti in strade chiuse in salita da cui riusciamo a uscire soltanto a passo d'uomo in retromarcia. Siamo tra i monti che si affacciano su Grbavica, la sede dell'associazione ha un'entrata minuscola. Quasi introvabile. Quando ci presentiamo all'entrata Jovan non c'è. Siamo giustamente arrivati in ritardo. (colpa di cui si macchiano spesso i giornalisti!!!). Al suo posto ci attendono quattro miei coetanei. Sono quattro dei tanti che Jovan ha preso per mano. Melina, Amir, Emina, Ajla. Ci sediamo in cerchio e si inizia a parlare. E' una chiacchierata tra giovani che condividono le stesse preoccupazioni per il futuro. Io non sono la fortunata e loro gli orfani. Sono ragazzi che hanno tutto da insegnare, che parlano l'inglese come se fosse la loro prima lingua, che hanno visto il mondo. Si divertono, vanno all'università. Mi raccontano che qui non c'è lavoro, che il governo non fa altro che agevolare gli interessi di casta e non dà possibilità ai giovani. E io non faccio altro che rispondere: also in Italy. La parola che ricorre è "chance", manca appunto l'opportunità di una svolta, anche la sola speranza di una Bosnia che possa iniziare finalmente a camminare sulle gambe dei giovani. Finiamo per ritrovarci tutti con gli stessi dubbi e gli stessi sogni.






Nel frattempo Jovan è tornato. Ci accoglie al piano di sotto nel suo studio colmo di peluche. Parla solo francese ed è tenero osservarlo mentre mi ascolta tentennare un " ehm I was born ehm Je suis née in (come cavolo si dice 1992 in francese?!?) ehm sorry a moment". Caspiterina, non mi viene in mente nessuna parola in francese, solo qualche espressione da analfabeta al primo stadio d'apprendimento del tipo bonjour, oui oui, merci.
Per fortuna che Jovan con la prontezza tipica dei militati recluta Melina per farci da interprete dal serbo croato all'inglese. Ci spostiamo sul balcone, la vista da qui è strepitosa.
La vita di Jovan è racchiusa in un libro dal titolo "Sarajevo mon amour". Ecco perchè mi strizza l'occhio e mi dice: "Non c'era nemmeno bisogno di venire qui, nel libro c'è già scritto tutto". In realtà non è un libro scritto da lui, ma è una lunghissima intervista divisa in vari capitoli rilasciata alla giornalista Florence La Bruyère. Mi preme chiedere a Jovan quanto gli accordi di Dayton del 1995 abbiano influito nel processo educativo dell'intera Bosnia. "Gli accordi di pace non hanno fatto altro che esasperare la frammentazione. Ancora oggi i programmi scolastici sono diversificati in base al credo e spesso l'integrazione è ostacolata. Tuttora esistono partiti politici nazionalisti che rivendicano autorità, famiglie che impediscono matrimoni misti". Davanti a un caffè bosniaco, il grande generale ha la premura di ascoltarmi a lungo, mi chiede ad esempio se conosco la differenza tra bosniaco e bosniacco e poi ancora: "Sono nato a Belgrado in Serbia, ma non sono un "Serbian". Qui siamo tutti ed esclusivamente bosniaci, non importa se musulmani, cattolici o ortodossi"




giovedì 25 aprile 2013

Le ragioni di Valentina

Dei pregi e delle doti di Valentina abbiamo già parlato in un precedente post. Sappiamo che a tali pregi non è insensibile il genere maschile. A tal proposito va segnalato che a Srebrenica la Vale ha rubato il cuore di un ventiduenne bosniaco, che dopo essere stato da noi intervistato ci ha raggiunto nel locale in cui stavamo pranzando per regalarle degli orecchini a forma di cuore. "Sono l'anima di questo posto" ha detto, "se li indossi tornerai qui un giorno". Va anche ricordato che ieri abbiamo attraversato quel che resta del tunnel di Sarajevo, è molto stretto e basso, insomma per passare bisogna chinarsi. Insomma, un gruppo di turisti ha osservato da vicino certe doti della vale e si è sperticata in apprezzamenti del tipo "what a perfect ass!" E similari.
Ma ora è il tempo di parlare dei difetti.
Ad esempio, valentina vuole sempre avere ragione.
Non puoi argomentare, non puoi discutere, lei immediatamente si mette sulla difensiva e trova mille giustificazioni per motivare una e una sola cosa.
Che ha ragione lei.
Ad esempio, oggi facevamo ritorno da Srebrenica a Sarajevo, la vale al volante io a dormire della grossa.
D'un tratto la Vale mi sveglia "alle mi spiace svegliarti, ma devi riprendere il lago!". Un lago? Non ricordavo di aver visto laghi all'andata. Allora do un'occhiata alla mappa. Stavamo andando verso nord, esattamente nella direzione opposta a Sarajevo. Di fatto eravamo a Zvornik, e il lago alla nostra destra altro non era che un lago artificiale generato dalla Drina, al confine tra Bosnia e Serbia.
"Vale abbiamo sbagliato strada"
"Impossibile"
"Come impossibile? Ti dico che siamo nella direzione opposta"
"Ma poi si ricongiunge"
"Ricongiunge a cosa?"
"Ma sì non la vedi sulla mappa? La strada più grande!"
"Ma è questa la strada più grande"
"Impossibile"
Insomma, valentina ha continuato a sostenere di avere ragione anche dopo aver invertito il senso di marcia.
Un viaggio interminabile per le montagne bosniache. Arrivati in albergo, valentina si attacca a internet e scopre che proprio a Zvornik, nella Drina sono sepolti migliaia di arabi uccisi dalle truppe serbo-bosniache. I loro corpi non sono ancora stati del tutto scoperti, e lo sterminio si collega direttamente a quello di Srebrenica e Potocari.
"Lo vedi che ha avuto un senso sbagliare strada?"
Insomma, ha sempre ragione lei.

mercoledì 24 aprile 2013

L'assedio di Valentina

I bosniaci non sono insensibili alla bellezza mediterranea. Il che può essere un problema, visto che ogni volta che intervistiamo qualcuno finisce che quel qualcuno ci prova con Valentina. E dire che di bellezze femminili, qui a Sarajevo, non ne mancano!
A me non pare che sia lei a provocare, certo i ragazzi bosniaci vanno subito al dunque, e insidiano la Vale con proposte di giri in bicicletta o inviti a concerti. Addirittura un tipo le ha proposto di andare con lui a vedere Nosferatu, il film muto di Murnau sottotitolato in bosniaco. Niente male! Ho proposto a Valentina di cedere a qualcuna di queste avances per rendere più autorevole il nostro documentario, ma non ha accettato, quindi ha deciso di chiudersi in camera per sfuggire all'assedio bosniaco.


Le ho portato da mangiare in camera.




Qui la vediamo alle prese con una bistecca. Non avrà visto il film di Murnau, in compenso pare una scena de "La notte dei morti viventi" di Romero.
La notorietà abbrutisce.

Alle porte di Sarajevo

Lunedì 22 aprile dopo pranzo

E' il fiume Bosna ad accompagnarci. Un fiume impertinente che ti sgattaiola di fianco quando meno te l'aspetti, si impone sotto i ponti ad ogni manciata di chilometri. Te lo ritrovi prima a destra, poi a sinistra. A volte non lo vedi e ti chiedi dove sia finito. Seguendo il suo umore, vieni catapultato alle porte di Sarajevo. 

La città di Sarajevo ha una struttura urbanistica meravigliosa. Tutto sembra dettato dalla parola tabut. Come ho letto tra le note di una raccolta di poesie del poeta bosniaco Adbulah Sidran dal titolo " Sarajevski tabut", dalla radice semitica t-b-t la parola TABUT assumerebbe in arabo, ebraico, aramaico e copto vari significati tra cui quello di petto, cuore, seno, nave, barca, cassa, scrigno, bara. Sarajevo assume una strepitosa forma che ricorda quella di una bara musulmana. La cassa da morto dei musulmani non ha i lati uguali ed è senza coperchio. 

Tutto per dire che sei costretto presto ad accantonare l'idea della circolarità delle nostre metropoli italiane e tuffarti in uno schema urbanistico totalmente inedito. La città si è evoluta per l'accostamento di quattro principali architetture: da destra a sinistra-come se stessi decifrando l'alfabeto arabo- incontri i resti dei primi insediamenti romani, poi la splendida Baščaršija ottomana e a seguire i palazzi tipicamente asburgici che cedono il passo a quelli sovietici. 



A Sarajevo il rintocco delle campane delle chiese cattoliche si sovrappone al richiamo del muezzin. Le cattedrali ortodosse abbracciano le moschee. Tutto è lì per testimoniare che la storia di un popolo può essere anche quella di tante religioni sorelle. E' bosniaco un bosniacco musulmano come lo è un ortodosso e un cattolico. 

L'entrata a Sarajevo dalla zona del Butmir, famosa per il museo del tunnel, mi ha colto totalmente impreparata. Avevo con incoscienza prenotato, prima della partenza, un hotel online fidandomi delle poche fotografie disponibili. Hotel Suljovic, nei pressi dell'aereoporto. Al nostro arrivo lo scenario che abbiamo di fronte, condizionato troppo dalla convinzione che "almeno a Sarajevo la ricostruzione sarà pur avvenuta", è del tutto desolante. Troviamo l'hotel a fatica inoltrandoci in un mercato poverissimo che si fatica a distinguere da una baraccopoli. La struttura è fatiscente, mai risollevata dalla guerra. Il proprietario ci invita  a seguirlo nel parcheggio sotterraneo: in sostanza, la zona delimitata dai pilastri in cemento che reggono a malapena la pensione. Una volta entrata a sbirciare, l'uomo che ci ha accolto all'ingresso mi mostra l'agenda delle prenotazioni per aprile: il solo nome registrato è il nostro. Non ce la sentiamo di rimanere, forse per codardia, forse per una profondo senso di inadeguatezza che ci spinge altrove. Sarajevo ci costringe a metterci in ascolto e ci palesa così la sua complessità.

" E' dal 1997 che vengo in Bosnia. Mi fanno rabbia le persone che pretendono di pontificare sulla storia dei Balcani avendoci messo il naso al massimo una volta, la Bosnia non ha bisogno di menzogne. Bisogna venire qui e mettersi in ascolto". Sono le parole che Roberta Biagiarelli si fa scappare dopo aver cenato con noi alla Fabbrica della Birra di Sarajevo. Roberta è una donna fantastica che avevo contattato prima di partire. Attrice marchigiana, appassionata ormai da vent'anni di Balcani. La incontriamo a Sarajevo perchè sta accompagnando dei liceali italiani in gita in Bosnia. Roberta ha nel cuore Srebrenica da quel 1997 quando ci venne per la prima volta. Ama la Bosnia e questo si sente. Rimane con noi fino a notte fonda. E' l'occasione per imparare qualcosa, per iniziare a cancellarsi di dosso fastidiosi stereotipi. "Ragazzi, Sarajevo non è la Bosnia. Andate a vedere la situazione nelle campagne, nei villaggi fantasma o in quelli ancora etnicamente ripuliti. Quale futuro può avere un giovane di Srebrenica? Dove sono i giovani a Srebrenica? E i giovani che hanno sempre vissuto grazie agli aiuti umanitari e che ora sono lasciati a se stessi nel pieno ozio, senza un impiego e senza alcuna qualifica che vita potranno mai avere?". Alcune domande e tanto silenzio davanti a tutto ciò.




Novo Mesto-Zagabria-Slavonski Brod

Lunedì 22 aprile

E' un'emozione oltrepassare due frontiere in un giorno solo. Ti fa sentire in grado di abbracciare il mondo in un batter d'occhio.

ore 10
La Slovenia è ancora Europa, in tutto viziata dall'oltretriestino, troppo simile al nostro Bel paese. Arrivare a Zagabria da Novo Mesto sarebbe molto semplice, se non fosse per l'imbocco dell'autostrada che non troviamo e siamo costretti a tornare a Otocec per indovinare l'entrata giusta  verso est.

Poco prima di Zagabria arriva la prima dogana. Slovenia-Croazia. Non sono più abituata alle frontiere, mi ricordano ormai obblighi desueti che l'Unione europea ha in parte spazzato via.
E' molto singolare questa sorta di limbo in cui le persone attendono dopo la convalida della polizia slovena per l'uscita anche quella della polizia croata per l'entrata. Si potrebbe immaginare un dialogo tra frontiere: "Te lo lascio. Ok, me lo prendo". In realtà il limbo termina nell'arco di pochi minuti: è un semplicissimo controllo dei documenti d'identità.

La Croazia non ce la gustiamo per nulla perchè da Zagabria imbocchiamo l'autostrada che sulla Touring è  evidenziata con uno splendido color fucsia. Ed è realmente una strada splendida. Si va come il vento, in poche ore siamo al confine con la Bosnia. Località Slavonski Brod.
Mi ricordavo di una frontiera in corrispondenza di un ponte dal mio viaggio al confine tra Alsazia e Germania ed è sempre suggestivo perchè la presenza del fiume rende il passaggio da uno stato all'altro più solenne. Una sorta di attraversamento forzato che ti ricorda della fine di qualcosa e dell'inizio di qualcos'altro.

ore 13






Ebbene l'inizio della Bosnia Herzegovina è un letale colpo allo stomaco. Forse esistono modi di dire meno profani per descrivere il senso di profondo disorientamento che ti assale una volta arrivati a Bosanski brod. Chi è convinto che la ricostruzione di Sarajevo abbia fatto da capolista a quella dell'intera Bosnia si sbaglia profondamente. Dal confine nord con la Croazia fino all'altezza di Doboj si parla solo la lingua dettata dalla desolazione postbellica. Dopo un pranzo umile e delizioso accanto a uno dei pochi distributori di benzina a Bosanski Brod mi metto alla guida io del doblò. Forse la scelta più saggia del viaggio fino a questo momento.   Mettersi al volante tra gli scheletri di una Bosnia che non esiste più è un'emozione tale che ogni due chilometri ci fermiamo a fissare in silenzio il paesaggio. La terra non ha voce, ogni tanto si incontrano per strada anziani che ti salutano dall'alto della loro povertà vestita con garbo: non sono avvezzi alle telecamere di chi si sofferma, sono cittadini di paesi che non esistono, dimenticati da un mondo che non ha tempo di posa perchè corre ad ingigantire le metropoli. Fino a Doboj s'incontra la Bosnia che mostra il suo volto struccato, con i buchi dei proiettili, le fondamenta pericolanti dai bombardamenti. Le poche case ricostruite sembrano soffrire dell'ansia da protagonismo e sono quasi sempre tinteggiate con intonachi dai colori improbabili dal viola scuro al blu elettrico al verde pistacchio. I toni scuri delle macerie sono ironicamente inframezzati ogni tanto da una chiazza di colore, un singhiozzo di quella rinascita che tarda ad arrivare. Spesso si stagliano sulle colline tombe bianche musulmane o nere ortodosse, non ci sono altre vie per raggiungere il sud dall'alto: l'evidenza non risparmia nessuno, nemmeno chi presume di passarci distrattamente come se questo non fosse mondo.





Elogio del Garmin

O Garmin che fosti da noi così atteso
Le mappe balcaniche avevi in memoria
Così il nostro viaggio è stato intrapreso
Sapendo di avere con noi il tuo tesoro
Ma poi ti spegnesti una volta, un macello
Ce l'hai messa in quel posto nel momento più bello
Da allora ti sei spento per un giorno intero
E noi ci siam persi un bel pò per davvero
In cerca di mete, stazioni e metano
Ed ogni cercare è poi stato un pò vano
Quando ha ripreso a funzionare
Ci siam tosto accorti che era un pò da aggiornare
A cercare strade era proprio una schiappa
Allora la Vale ha cercato una mappa
Ma nulla da fare perchè non si trova
Di sarajevo la mappa in nessuna alcova
Magari da Ado una mappa ci sta
Ma di proiezioni su femminili beltà.

Di sim e di iphone

Chissà se riuscirò mai a recuperare il mio numero di cellulare italiano! Dopo varie vicissitudini che racconterà Valentina, siamo riusciti finalmente ad acquistare una sim bosniaca. Infatti telefonare dalla  Bosnia con la sim italiana è peggio che accendere un mutuo. Il problema è che ormai le sim che ti danno in giro in tutto il mondo sono solo per il Dio iPhone. Il fatto è che aprire lo slot della sim è un'impresa quasi impossibile, se non usi l'apposito stuzzicadenti metallico in dotazione nella scatola originale. Alla fine dopo un'estenuante battaglia, una graffetta gialla della Vale ha scardinato l'alloggiamento della sim. Ora infine ho il mio numero di cell bosniaco, ma per riavere il mio numero italiano, dovrò cambiare iPhone.

lunedì 22 aprile 2013

Cesta Ljubljanske Brigade,1

Domenica, 21 aprile 2013. Reggio Emilia- Trieste-Lubiana-Novo Mesto

Mi piace partire perchè di solito so a malapena da dove vengo e quasi mai dove sto andando. E' sempre come un lanciarsi nel vuoto e atterrare chissà dove. Oggi è andata così.

Partenza alle 10 da una Reggio nuvolosa e ancora addormentata. Dopo lunghe ore di training autogeno mi sono convinta a ridurre il mio bagaglio ad una mega valigia, un borsone e un simpaticissimo zainetto blu contienimondo di provenienza tipicamente postbellica. Alle, caricando i bagagli sul mitico Doblò blu, ha ammesso sommessamente: "Temevo che portassi molta più roba".
Bando alle ciance. Ultimo rifornimento di metano reggiano e si parte!


Siamo a Trieste intorno alle 13,30. Scatta sms, seguito da telefonata a Paolo Rumiz. Una sosta è d'obbligo. Basta consultare una scarna bibliografia sulla storia di Sarajevo negli ultimi vent'anni per comprendere che il nome di Paolo Rumiz è fortemente legato a quello dei Balcani. In secondo luogo, Alle e Rumiz sono amici, direi veri amici. Rumiz ci accoglie nella sua nuova casa con una naturalezza tale che manca il tempo per imbarazzarsi. Ci gustiamo il panorama di una Trieste insolita, vista dall'alto, a picco sul mare. E mi sovviene l'amore che ho sempre nutrito per le città di porto(Genova, Napoli): così scomodamente oblique.

Ripartiamo con alcune indicazioni di Paolo appuntante sull'agenda. L'intenzione è quella di avvicinarci il più possibile a Zagabria per poter proseguire domani verso Sarajevo con tutta calma. Ahinoi, profanamente sarebbe il caso di aggiungere un bel : tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare! Ci sovviene, of course appena valicato il confine con la Slovenia, che ci conveniva fare un altro pieno di metano in Italia e assicurarci una buona autonomia di viaggio almeno per qualche altro centinaio di chilometri. Ma ormai siamo in Slovenia e ci tocca iniziare una caccia spietata ad un qualche sloveno erdgas(maledetta traduzione di metano in inglese che quando ci pensi non ti viene mai in mente).Scopriamo che esiste a Lubiana. 

Che ci vuole? Trieste-Lubiana si fa comodamente in un'ora. Il problema sopraggiunge quando scopro che il navigatore Garmin- che tengo nello zaino come una reliquia sacra illudendomi della sua infallibilità-non si accende più, sostanzialmente non mostra più segni di vita. Lo attacchiamo invano ad una presa di corrente pensando ad una banale batteria scarica, niente da fare. E qui arriva il bello.
Come facciamo a raggiungere il distributore di metano in Cesta Ljubljanske Brigade,1 senza cartina di Lubiana, senza connessione internet e con un Garmin defunto? In più diluvia. 


Riusciamo ad agganciare una rete wi-fi da un distributore di benzina all'uscita sud di Lubiana e con una mini cartina online tentiamo di imboccare questa benedetta Celovska Cesta(lunga quanto la via Emilia che attraversa Reggio) che dovrebbe in teoria correre parallela a Cesta Ljubljanske Brigade. Procediamo a zonzo in questi quartieri periferici industriali in cui non c'è anima viva finchè compare un anziano signore che sembra fare al caso nostro: "Sorry, can you help me? Where is Celovska Cesta?". Lui ci fissa, volenteroso di aiutarci, e inizia a blaterare qualcosa in una lingua incomprensibile-si presume sloveno misto a croato- di cui non riusciamo a capire un bel niente. Io sorrido e lo saluto: "Thank you very much". Alzato il finestrino, iniziamo a ridere convulsamente tanto da farci venire le lacrime agli occhi: dopotutto bisogna esorcizzare la disperazione.

D'un tratto il Garmin, già defunto, resuscita. Tanto da permetterci di raggiungere la stazione di erdgas più sofferta della storia. Continua a diluviare senza sosta. Scene di panico davanti al metano fai-da-te, unica ed esclusiva lingua sui monitor: lo sloveno. Siamo tanto inesperti che inizialmente tentiamo di incastrare la valvola da camion nel misero bocchettone del doblò. Insomma, ci facciamo ridere dietro.


Ormai è ora di cena. Realizziamo di aver perso tre ore del viaggio a causa dell'assurda ostinazione di trovare un metano a Lubiana. Ci dirigiamo verso Novo Mesto, rinunciamo ad arrivare fino a Zagabria. Ci penseremo domani alla dogana croata. Paolo ci ha consigliato un agriturismo a Otocec, nei pressi di Novo Mesto. Il Garmin ha perso nuovamente i sensi e ci lascia sul più bello, ormai giunti a Novo Mesto nord. Ed ora come facciamo a trovare un luogo in cui dormire? Tentiamo di raggiungere Otocec che dista una decina di chilometri. La fame e la stanchezza crescono. Ci perdiamo in una strada costeggiante un fiume, senza alcuna illuminazione. Arrivati a Otocec, nulla da fare. Tutto completamente chiuso, sembra un paesaggio surreale. Poche casupole, alcune arroccate insieme al castello là in alto, il resto è spento. Senza luce, attraversiamo un ponticello di legno per arrivare tra i boschi ad una frazione ancora più disabitata. Finché non troviamo un'indicazione con Pizzeria Sent Peter, entriamo e torniamo alla vita. C'è un solo cameriere, ma il luogo è delizioso, pulitissimo, con connessione wifi. Ordiniamo entrambi un filetto al pepe e cerchiamo connessioni col mondo che nelle ultime ore avevamo perso. A fine cena, il cameriere ci consigli qualche luogo in cui fermarci a dormire. A Otocec è tutto chiuso perchè è domenica, raggiungiamo Villa Otocec in cima ad una collina, ma al citofono non ci risponde nessuno. Torniamo a Novo Mesto, l'hotel Krka ci spalanca le porte alle 23 di sera. E' un quattro stelle, per stanotte ce lo siamo meritati. E domani Sarajevo. Alle dorme già da un paio d'ore, buonanotte

sabato 20 aprile 2013

Con Enver Hadžiomerspahić a Reggio

Giovedì è capitato per caso a Reggio Enver Hadžiomerspahić.
Nel 1984 è stato direttore dei programmi di apertura e di chiusura dei XIV Giochi Olimpici Invernali a Sarajevo. Durante il primo anno dell'assedio è stato l'ideatore del progetto Ars Aevi che prevedeva di invitare gli artisti più importanti dell'epoca a formare con le loro opere la collezione permanente di arte contemporanea per il futuro museo Ars Aevi di Sarajevo. Nel 1993, in pieno assedio, volò a Venezia in occasione della Biennale per promuovere il progetto e quest'anno ci ritorna, a distanza di vent'anni, con una collettiva Ars Aevi all'Arsenale nell'ambito degli eventi collaterali alla Biennale per sostenere inoltre la futura costruzione a Sarajevo del museo Ars Aevi  ideato dall'italiano Renzo Piano. Abbiamo incontrato Enver al bar di fronte alla stazione di Reggio, in attesa di conversare con suo figlio Anur che ci aspetta a Sarajevo la settimana prossima. 








mercoledì 17 aprile 2013

Quindi passava il tempo


"Prima di tutto passava il tempo.
Poi abbiamo attraversato il ponte e la strada, vicino
alla pompa di benzina, e lì, in accordo con
il buon senso, stava scritto vietato fumare,
quindi abbiamo di nuovo attraversato la strada, ai piedi del
Trebevic, con andatura incerta, per paura
del cambiamento, dello scroscio d'acqua inatteso."
Abdulah Sidran