mercoledì 24 aprile 2013

Alle porte di Sarajevo

Lunedì 22 aprile dopo pranzo

E' il fiume Bosna ad accompagnarci. Un fiume impertinente che ti sgattaiola di fianco quando meno te l'aspetti, si impone sotto i ponti ad ogni manciata di chilometri. Te lo ritrovi prima a destra, poi a sinistra. A volte non lo vedi e ti chiedi dove sia finito. Seguendo il suo umore, vieni catapultato alle porte di Sarajevo. 

La città di Sarajevo ha una struttura urbanistica meravigliosa. Tutto sembra dettato dalla parola tabut. Come ho letto tra le note di una raccolta di poesie del poeta bosniaco Adbulah Sidran dal titolo " Sarajevski tabut", dalla radice semitica t-b-t la parola TABUT assumerebbe in arabo, ebraico, aramaico e copto vari significati tra cui quello di petto, cuore, seno, nave, barca, cassa, scrigno, bara. Sarajevo assume una strepitosa forma che ricorda quella di una bara musulmana. La cassa da morto dei musulmani non ha i lati uguali ed è senza coperchio. 

Tutto per dire che sei costretto presto ad accantonare l'idea della circolarità delle nostre metropoli italiane e tuffarti in uno schema urbanistico totalmente inedito. La città si è evoluta per l'accostamento di quattro principali architetture: da destra a sinistra-come se stessi decifrando l'alfabeto arabo- incontri i resti dei primi insediamenti romani, poi la splendida Baščaršija ottomana e a seguire i palazzi tipicamente asburgici che cedono il passo a quelli sovietici. 



A Sarajevo il rintocco delle campane delle chiese cattoliche si sovrappone al richiamo del muezzin. Le cattedrali ortodosse abbracciano le moschee. Tutto è lì per testimoniare che la storia di un popolo può essere anche quella di tante religioni sorelle. E' bosniaco un bosniacco musulmano come lo è un ortodosso e un cattolico. 

L'entrata a Sarajevo dalla zona del Butmir, famosa per il museo del tunnel, mi ha colto totalmente impreparata. Avevo con incoscienza prenotato, prima della partenza, un hotel online fidandomi delle poche fotografie disponibili. Hotel Suljovic, nei pressi dell'aereoporto. Al nostro arrivo lo scenario che abbiamo di fronte, condizionato troppo dalla convinzione che "almeno a Sarajevo la ricostruzione sarà pur avvenuta", è del tutto desolante. Troviamo l'hotel a fatica inoltrandoci in un mercato poverissimo che si fatica a distinguere da una baraccopoli. La struttura è fatiscente, mai risollevata dalla guerra. Il proprietario ci invita  a seguirlo nel parcheggio sotterraneo: in sostanza, la zona delimitata dai pilastri in cemento che reggono a malapena la pensione. Una volta entrata a sbirciare, l'uomo che ci ha accolto all'ingresso mi mostra l'agenda delle prenotazioni per aprile: il solo nome registrato è il nostro. Non ce la sentiamo di rimanere, forse per codardia, forse per una profondo senso di inadeguatezza che ci spinge altrove. Sarajevo ci costringe a metterci in ascolto e ci palesa così la sua complessità.

" E' dal 1997 che vengo in Bosnia. Mi fanno rabbia le persone che pretendono di pontificare sulla storia dei Balcani avendoci messo il naso al massimo una volta, la Bosnia non ha bisogno di menzogne. Bisogna venire qui e mettersi in ascolto". Sono le parole che Roberta Biagiarelli si fa scappare dopo aver cenato con noi alla Fabbrica della Birra di Sarajevo. Roberta è una donna fantastica che avevo contattato prima di partire. Attrice marchigiana, appassionata ormai da vent'anni di Balcani. La incontriamo a Sarajevo perchè sta accompagnando dei liceali italiani in gita in Bosnia. Roberta ha nel cuore Srebrenica da quel 1997 quando ci venne per la prima volta. Ama la Bosnia e questo si sente. Rimane con noi fino a notte fonda. E' l'occasione per imparare qualcosa, per iniziare a cancellarsi di dosso fastidiosi stereotipi. "Ragazzi, Sarajevo non è la Bosnia. Andate a vedere la situazione nelle campagne, nei villaggi fantasma o in quelli ancora etnicamente ripuliti. Quale futuro può avere un giovane di Srebrenica? Dove sono i giovani a Srebrenica? E i giovani che hanno sempre vissuto grazie agli aiuti umanitari e che ora sono lasciati a se stessi nel pieno ozio, senza un impiego e senza alcuna qualifica che vita potranno mai avere?". Alcune domande e tanto silenzio davanti a tutto ciò.




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